30 marzo 2009

«Mistero grandioso e commovente»: la poesia di Aldo Onorati - Parte prima

Ci s’intenda, anzitutto, su un livello critico preliminare, che può valere come soglia del discorso. Dice bene Angelo Marchese quando scrive che il poeta «è tale non tanto per ciò che ha pensato o sentito, ma perché ha parlato. Egli è un creatore non di idee, ma di parole. Tutto il suo genio sta nell’invenzione verbale». È importante, certo, che cosa si dice; ma più importante ancora è come lo si dice. L’inimitabile magia della iunctura. Sta tutto lì il segreto. Il mistero del carattere. Il segno distintivo dello stile.
Di Aldo Onorati vorrei sottolineare - oltre dunque al “che cosa”, cioè lo spessore umano dello scrittore e il genuino patrimonio di valori e contenuti che fa da retroterra alla sua arte - anche e soprattutto il “come”, cioè il talento linguistico che rivela e riversa dentro le parole, e il modo in cui le accosta, le fa incontrare, permettendo loro di sprigionarsi. La sua valenza autoriale si avverte anzitutto nell’impronta che egli lascia, attingendone l’essenza, la forza, la pregnanza, su alcuni tra i problemi e i portati più significativi del linguaggio poetico-letterario novecentesco. Al punto che è capace di ricapitolarlo e ricrearlo dall’interno, in modi sempre originali.
Onorati è uno scrittore che sa sempre come sorprendere. E mai per manierismo, per lambiccato compiacimento. È sempre originale perché autentico, “centrato”, a contatto con le fonti della propria creatività (cioè dell’Essere). Creativo perché libero, e libero perché creativo. Proprio giacché dietro l’artista c’è l’uomo che vive e che palpita: l’uomo di carne, di nervi e di sangue. E non c’è artista che tenga, pur quando dotato, se dietro non c’è, corposamente, l’uomo con la sua pasta espressiva, archetipa, organica, esistenziale; l’uomo intero, che sa mantenersi vivo e presente, anche quando crea. L’uomo col bagaglio delle sue esperienze - estri, furori, sentimenti. Con gli incontri che ha avuto. Con il retaggio dei giorni attraversati. Con i suoi occhi eterni da ragazzo, nonostante le rughe incise dal tempo.
La lingua poetica di Onorati (ed è tale anche quando scrive in prosa) non suona mai a vuoto, come talvolta avviene in autori anche conclamati; ma è sempre umana, nel senso pieno del termine: e quindi corposa, plastica, materica, prensile, vera. Si leggano, per conferma, questi versi estratti dalla vasta miniera del suo corpus poetico:

“Ho visto nella notte l’ombra mia stampata dalla luna/Il lago era carne liquefatta”;
“Lasciatemi un’ampolla di vino ed una pèsca/reliquia dell’estate. Quanto mare/al di là degli scogli… ed il sapore di liquirizia del terreno. E noi/sotto il sangue dei gelsi”;
“I microfoni cigolano/al vibrio delle corde. Allo strascichio delle spazzole/sui tamburi, s’appannano/i bubulii lunari dei saxofoni”;
“alza la pioggia gusci/di chiocciole, piumaglia/di tacchini sgozzati”.

La lingua di Onorati è una “creta metamorfica” che mette le cose davanti agli occhi, vive e nude. Una scrittura sintetica e agglutinante, che illumina di squarci e lampi: con due parole sa dipingere un mondo.
Il fatto è che Onorati, buon per lui, appartiene al versante degli autori linguisticamente “grassi”: ricchi, succosi, organici, godibili, corporali. La linea che attraversa Petronio, Apuleio, Dante, Pulci, Folengo, Rabelais… per arrivare fino a quel gigante nascosto del Novecento che è Domenico Rea. Onorati poeta mette d’accordo i poli per molti versi inconciliabili di Omero e Orfeo: concretezza icastica di contenuto e potere magico del canto. Altrove ebbi modo di paragonarlo idealmente, per la potenza ancestrale dei contenuti, a un Verga tradotto però nella felicità espressiva e linguistica di un D’Annunzio.
Dunque una scrittura pregnante, di alta densità semantica e di grande musicalità, che procede spesso per ellissi, per sottrazione: e il “non detto” si fa sentire, parla attraverso il detto che opera, verbo vivo, alla sua rappresentazione. È, peraltro, la soglia d’ombra che illumina la luce. Ed è dal taglio che ricuci la ferita.
Ecco allora questa forma poetica che “rende tattile il vuoto” per consentirne l’esplorazione e, specularmene, “pianta le pietre sull’abisso” per opporvi un divario di resistenza. Onorati stesso ammette che “la parola è materia”. Materia primordiale: cioè articolazione dell’origine, apertura della luce, scintilla che trasale, sillabazione mitica del mondo. Come scrive il succitato D’Annunzio - poeta che Onorati ammira molto - quasi alla fine di Maia-Laus vitae:

“O parole, mitica forza (…) / Io vi trassi con mano/casta e robusta dal gorgo/della prima origine, fresca/come le corolle del mare (…) / Io vi disposi nei modi/dell’arte così che la vita/vostra rivelò le segrete/radici, le innumere fibre/che legano tutta la stirpe/alla Natura sonora (…) Splendete e sonate, o parole,/ in questo Inno che è il vasto/preludio del mio novo canto./ Converse io v’ho novamente/ in sostanza umana, in viva/polpa, in carne della mia carne,/ in vene di sangue e di pianto”.

Parole che noi stessi potremmo apporre in epigrafe a quelle di Onorati; e lui stesso dire delle proprie.
Tuttavia, lo sappiamo, occorre stare attenti con le classificazioni letterarie, spesso fuorvianti e arbitrarie. Lo scrittore da “incasellare”: quasi a depotenziarlo, a renderlo meno pericoloso. Capire l’autore: purché non si traduca in operazione ambigua, riduttiva, frettolosa. Più che capito, a ben vedere, l’autore andrebbe com-preso (nel senso etimologico di “prendere con”); giacché, quanto più è grande, tanto più “non cape” negli schemi entro cui vogliamo imprigionarlo. Va accolto nella sua complessità. Occorre, per quanto possibile, parlare con la sua stessa voce.
Di Onorati si dice che è un buon narratore. Ha fatto evidentemente comodo classificarlo anzitutto come tale. E il poeta? Qualcuno potrebbe obiettare: perché, non è “poeta” quando narra? Certo che lo è. Ma, voglio dire, il poeta che scrive versi? Quello che consapevolmente accoglie ed usa la forma lirica? L’“alter ego” del dantista che incanta le platee di mezzo mondo; e del tenore mancato, che in gioventù studiava canto dal maestro Ranucci? E l’artista sopraffino, distillato dal contatto vivificante con “mostri sacri” del calibro di Petrocchi e Marmorale, all’Università di Roma, attraverso la cui lezione ha potuto maturare un bagaglio quasi inarrivabile di conoscenze metriche, di questioni tecniche, di padronanza alchemica del verbo?
Risponderò con un’altra domanda, che poi, in fondo, tutte le racchiude: e l’autore?
Perché quando uno è autore, intendo autore vero, è inutile e talvolta offensivo imporgli certe classificazioni. Scrive lo stesso Onorati (ed è così, evidentemente, che chiede d’essere inteso): «Io non faccio differenze tra poesia e saggi, perché la matrice unica è l’individuo, ed è impossibile scindere le cose attraverso dati esterni, quali il genere letterario, o la distinzione fra lirica e prosa in base all’accidente».
È vero: quando uno è autore la sua voce, qualunque cosa scriva e comunque la scriva, è unica, inconfondibile, quella. Deve poter bastare un verso o un rigo appena, per dire: è lui, eccolo, si riconosce.
Eppure, fra il verso e il “parlar diffuso” (oratio soluta), ci sono importanti e non eludibili differenze tecniche. La poesia frantuma la consecuzione logico-sintagmatica della prosa. La linearità di quest’ultima è insidiata, nella poesia, da una controspinta che riporta indietro la nostra percezione visiva e acustica. Gli stessi “versi” sono – etimologicamente – “ritorni”, mentre la prosa è un discorso che procede per tutta la riga, in linea retta. Rispetto alla prosa, la poesia valorizza al massimo grado l’insieme dei materiali linguistici. Quelle cose devono esser dette da quelle parole, in quella particolare sequenza, non altrimenti. In poesia, tutto è strettamente necessario. Perciò, non basta andare a capo prima del margine destro del foglio, per fare un verso. La poesia è un valore comunicato attraverso la parola. La parola poetica deve quindi staccarsi dal linguaggio quotidiano; ma senza partire per la tangente (come spesso fanno le avanguardie): deve sempre permettere al lettore di poter dire “Ecco, scriverei questo, se sapessi dirlo in versi”.
[...]
Marco Onofrio

27 febbraio 2009

Nanni Balestrini, Sandokan. Storia di camorra, Einaudi, 2004, euro 13


Destino curioso quello che accompagna questo romanzo di Nanni Balestrini: “Sandokan, storia di camorra”, stampato nel 2004, circa due anni prima del più fortunato saggio di Roberto Saviano “Gomorra”. Storia ricca di contraddizioni perché il libro, nonostante sia un’accusa durissima contro la Camorra e le commistioni fra affari illeciti, economia e politica, appena uscito gode di una certa popolarità proprio in quei paesi del casertano dove si svolgono i fatti. Viene esposto nelle vetrine dei negozi e comprato soprattutto dai giovani affiliati: i “muschilli”. I boss ne sono evidentemente compiaciuti se permettono la circolazione del libro, lo comprano perché è una storia che parla di loro.
Balestrini racconta, attraverso gli occhi di un ragazzo, la storia-saga dell’ascesa, nel casertano, del clan dei Casalesi che raggiunge l’apice con Antonio Bardellino. Nella periferia dei paesi coinvolti, i protagonisti, quasi tutti analfabeti, costruiscono le loro ville gigantesche e fanno il verso ai signori. Presto la lotta fra i vari boss sfocia in una sanguinosa faida interna che porta all’arresto, nel 1998, di Francesco Schiavone detto “Sandokan”, per la vaga somiglianza con l’attore Kabir Bedi.
Per quanto riguarda i contenuti, è un romanzo-reportage gelido ed agghiacciante che ci svela il retroterra di sottosviluppo e disperazione di cui si nutre la camorra. È l’attraversamento di quelle terre dove lo stato non ha mai attecchito ed i clan controllano ogni gesto e ogni sguardo. L’organizzazione decide la tua vita, dalla gerarchia che vige fra i bambini sul pulmino della scuola alla vita più intima: due ragazzi non possono appartarsi in macchina, se li scoprono li ammazzano di botte, il boss non vuole. La parabola del clan sfocia in un bagno di sangue e nell’arresto di “Sandokan”, ma la Camorra non finisce, cambia soltanto capo, perché la gente sembra non capire – cioè l’errore grande di chi si occupa di questi fenomeni è che non si rende conto di quello che è il vero problema è che non è soltanto questione di un gruppo di criminali di assassini di pazzi di persone che vogliono diventare ricchissimi nel più breve tempo possibile è proprio una questione di mentalità di qui – ed ancora – quando nasci non hai nessun diritto nessuna garanzia non hai niente che ne so in un altro paese qualsiasi ci sono servizi più o meno decenti quasi per tutti scuole più o meno pulite mezzi pubblici servizi comunali che funzionano più o meno bene ma almeno c’è l’idea che possano esistere invece qui da noi no qui da noi non c’è nulla ma proprio nulla non c’è un cazzo –.
Si è scritto molto sulla malavita organizzata, si sono girati decine di film ma l’originalità e la forza espressiva che caratterizzano questo romanzo, sono anche il frutto di quella ricerca formale e stilistica che caratterizza la prosa di Balestrini. L’autore utilizza un linguaggio innovativo e personale che perde la punteggiatura e si fa percussivo, modellandosi sulle strutture del parlato, si affida alle ripetizioni e alla voce in presa diretta del protagonista. La sua scrittura non è mai vuoto formalismo, bastano poche pagine per trovare il ritmo e venire catturati dal racconto. Balestrini infatti è uno scrittore epico, mai pacchiano, autore di saghe moderne come la trilogia “La grande rivolta” (Vogliamo tutto, Gli invisibili, L’editore), capace di descrivere la storia di questo paese con grande lucidità. Proprio per questo motivo è un autore scomodo, spesso accolto con un certo imbarazzo, ignorato o, peggio, costretto a forza su un piedistallo minore, nel limbo dei “grandi autori”.
Davide Dalmiglio

15 febbraio 2009

GIONA, Il libro di Giona, qualsiasi edizione a qualsiasi costo

Finalmente un bel racconto di viaggio, per il corpo del bucaniere, nonché, ovviamente, per mille baleni e altrettante balene. Il viaggio e il suo infinito campo semantico![1] Ricerca, cura, avventura letteraria, avventura militare, turismo. Sì, ma il vero viaggio?
Ismaele, sì, perché l'unico viaggiatore è il fuggiasco, foss'anche quello del finesettimana, Ismaele quando si imbarca sul Pequod si sente fare questa imbarazzante domanda dal suo datore di lavoro, il buffo Peleg: "perché ti vuoi imbarcare?" Ismaele, di tutto cuore, gli risponde che vuole vedere il mondo e, allora, quel vecchio demonio di un presbiteriano di un Peleg gli dice di andare a vedere oltre la prua cosa vede. Ismaele ci va e vede il mare, il mare, niente altro che tutto quel mare, goccia su goccia. Una visione lenta, ché il Viaggiatore trova nella pazienza la misura della propria anima. Vede il mare. Il nulla liquido.
Si viaggia per il nulla liquido e, detto questo, passiamo al vivo dell'argomento.

Giona (in ebraico Ionah, cioè colomba. Spirito libero e celestiale o spirito barbaro e nomade?) è il quinto dei Profeti minori, sia nel testo masoretico che nella Volgata. Nei LXX è il sesto.
Il libro di un profeta minore, dunque.
Prima considerazione a latere sui profondi motivi che rendono urgenti questo breve articolo: ci sono scrittori che vivono in uno stato di autidentificazione con il grande ("la letteratura italiana inizia con i primi versi della Commedia e finisci tutta co' mia" D'Annunzio) e altri che amano fingersi dei minori per diventarlo davvero(come il Calvino Italo). Scrittori minori. Profeti minori. Una passione a prescindere, insomma.
Giona, poi, era un profeta?
Questo piccolo libro si presenta più sotto l'aspetto di un racconto che di una profezia. Giona, primo dei Narratori minori?
(appunti per una piega massonicocculto dell'articolo: narratore come profeta, profeta come narratore, profezia come frottolla e frottola come rivelazione. La consistenza onirica ed emotiva della Verità. Buttarla in caciara sul reale ruolo del narratore in termini epocali e apocalittici e, forti di tali argomenti, presentarsi a eventuale mecenate con sguardo invasato. Ottime possibilità di successo).
Che tipo di letteratura è Giona, allora? Un racconto di evasione? Midhrash (fictio didactica)?
Personalmente non riteniamo (uso il plurale per sottolineare la fede in quanto dico denunciando l'adesione ad esso da parte di tutte le mie personalità), non riteniamo che esista una letteratura di evasione. E neanche l'evasione. Perfino chi evade, poniamo da un carcere, ha più per fine un esercizio dell'intelletto e una visione dell'anima che l'evasione in sé. Inoltre trovo difficile che un ebreo sia mosso a parlare da altro scopo che non sia morale. Perfino se si mette a raccontare una barzelletta.
Per esempio (barzelletta ebrea contro gli ebrei):
Un padre dice al figlio, "Sali sulla scala e, quando te lo dico io, buttati di schiena."
" Ma io ho paura, papà", gli risponde il figlio.
"Abbi fede. Io ti prenderò"
Il figlio si butta ed il padre lo afferra. Il gioco va avanti un po'. Dal secondo piolo. Dal terzo piolo. Dal quarto. Il figlio sta lì, sale i pioli e si butta. Da tutto questo gioco impara che, a parte che il padre è un faceto, egli è anche un tipo affidabile. Arriviamo al nono piolo. Il ragazzo si butta. Il padre si scosta e non lo afferra. Il giovane è tutto rotto e comincia a piagnucolare.
" Ma perché non mi hai afferrato?" Urla al padre.
" Così impari a fidarti di un ebreo!" [2]
Forse non arriva subito, ma qui, l'ammaestramento antisemita è addirittura un tentativo di criptare un insegnamento metafisico e psichico che, tra l'altro, ha la sua fonte nel libro stesso di Giona.
Seconda considerazione, meno a latere, sui motivi che supportano e giustificano questo articolo. Il ruolo dei minori come fonte.
Il Minore è forse un generoso dissipatore. Trova la storia esatta. Quella che esattamente è da raccontare. La butta giù come gli viene in tre paginette (come nel caso del nostro) e poi lascia che siano altri a scriverla. il Minore è il grande soggettista. Giona è il soggettista di questa barzelletta. Di Moby Dick, della Commedia e dell'Odissea, di Pinocchio e, in generale, di tutta quella letteratura che si pone a metà strada tra la psichiatrica e la turistica.
Il turismo come viaggio, il viaggio come ricerca, la ricerca come tensione al ricongiungimento (Iside e Osiride). Un azione, in sé, al di là della sua soddisfazione, terapeutica. La terapia come atto cosciente di viaggio[3]. Il problema che entrambe le azioni mettono in ballo, in termini coincidenti di patologia e soluzione della patologia, è lo stesso: l'inquietudine.
Pier Paolo Di Mino

[1] Il punto esclamativo a fine asserzione è un fossile grafico dello stato di rapimento romantico in cui ho concepito questo pensiero.

[2] Traduco così dalla versione coretica del Beughilker (Basilea, 1765). C.Bubber, in "Portico D'Ottavia" (tr. di M. Bosè, Simiakòs ed., Roma), riporta la versione: "Ma li mejo mortacci tua e di chi non te ce manda"; "così te 'mpari"
[3] Ipotesi terapeutica: eliminare quella feroce distorsione prospettica che è l'analisi del profondo come scandaglio degli intestini nella psicoterapia, e ridefinire il viaggio come prassi immaginale cosciente. In pratica ridefinire il ruolo del terapeuta in tour operetor. Volendo le due parole si assomigliano. Lascio a qualche filologo il compito di dimostrarne la parentela.

JAMES HILLMAN, Saggio su Pan, Adelphi, p.132, euro 9,00


Adelphi ristampa il saggio su Pan di uno degli scrittori più comprati e meno letto dagli italiani, James Hillman, quest’uomo le cui parole sono così poco essenzialmente comprese, quindi belle, che nessun uomo di gusto, foss’anche un modesto gusto borghese, lascerebbe mancare al migliore ornamento della propria libreria.
E vale veramente tutto il piacere di parlarne.
Il saggio è un canto al Pan, il dio che è tutto. Quel Dio, narra Plutarco, che hanno sentito morire mentre moriva sulla croce il dio dei cristiani, a significare una certa, se vuoi banale e scontata ma sempre esaltante, identità tra avversari.
Il dio, ci racconta l’Hillman, che starebbe a un certo nostro lato oscuro, di buon depravato e stupratore. Un lato che ci rende vivi in maniera elementare, e la cui elaborazione a metafora (il lavoro di penetrante poesia che si può adoperare su di esso) libera, letteralmente, il nostro corpo in letteratura.
Bene, il saggio è solo un capitolo di quel grande romanzo figurale che questo ultimo grande scrittore italiano, italiano sulla scorta terapeutica del Ficino, ancora vivo della viva curiosità del Pico della Mirandola, furente come Bruno e tutto parola come il D’annunzio (peccato non abbia potuto prendersi il lusso di scrivere in questa lingua morta); che questo grande scrittore ha composto usando le figure degli antichi, quindi immortali, dei.
E vale la pena di questo piacere, perché con Hillman parliamo di piacere; perché con Hillman, a metterla giù come Benjamin, impariamo spettacolarmente che i fini sono tutti sbagliati perché servono solo per scusa ai mezzi, che sono tutti sbagliati: quello che vale, e si salva, è il modo. Il modo: la letteratura di Hillman.
Grande lezione di letteratura; di letteratura pura ed essenziale, figurale, in cui viene magistralmente, con costanza, esemplificato il bene taumaturgico di due risorse retoriche di nettissima pregnanza poetica: la ripetizione e la ridondanza.
È così. La ripetizione che esaltava a sistema Kierkegaard; la ripetizione (repetita juvant) che è scuola del classico (fino alla vetta vertiginosa e amara, da sangue al naso, di un Lucrezio). È lo stesso Hillman, in qualche luogo, a denunciare di avere imparato a ripetersi da un vecchio zio che raccontava sempre la stessa storia, e allo stesso modo. Il giovane, ancora ignaro della propria vocazione alla letteratura, un giorno interruppe il parente per dirgli che questa storia l’aveva già raccontata, così da dare il destro al vecchio di pronunciare il sacro e santo: si vede che mi piace ripeterla. Il piacere è ripetizione. La letteratura è ripetizione. La letteratura è ripetizione, infine, perché la retorica di puro piacere della ripetizione corrode via via il senso, toglie pregnanza al concetto per collocare tale pregnanza nella sua elaborazione. Il concetto, così, si esalta nel significante.
E poi, e ancora di più, la ridondanza. La ridondanza perché poche e banali le cose che a questo mondo si possono raccontare e da tutte, a ben vedere e con rigore, si può desumere una sola conclusione: la conclusione che tutti attende.
Da questa banalità, da questo male variamente e con varia noiosità declinato dalle parole della medicina, ci può salvare solo quel complesso e tortuoso girare attorno a parole e parole, quella ridondanza, che è la letteratura.
E qui finisco questa breve recensione, con la coscienza tranquillissima di avere detto poco su quel poco che Hillman ha detto su Pan.
Pier Paolo Di Mino

10 febbraio 2009

ARMIN GREDER, La città (trad. di Alessandro Baricco), pp. 36, euro 16,00, Orecchio Acerbo

Per il racconto illustrato che stiamo qui presentando, caratterizzato da una fortissima componente animica, si è reso necessario un dialogo platonico in piena regola (Veronica Leffe = LEF; Silvia Santirosi = SAN).

Una Madre si allontana con il suo Bambino ancora in fasce dalla Città e dalla Guerra che l’ha resa vedova, vivendo per anni in un isolamento pressoché assoluto. Un giorno la Madre muore e il Bambino, ormai Ragazzo, dopo un momento di totale smarrimento e inattività, decide di lasciare la sua casa alla volta della Città. Ma deve prima seppellire le ossa della genitrice…

SAN Hai visto? Più il figlio viene stretto a sé dalla Madre, più i suoi occhi sono sbarrati. Una presenza tanto assoluta da farsi quasi assenza, e Armin Greder ce la racconta con un suo ritmo particolarissimo, proponendo una scansione tetralogica dei momenti di cura del bambino nelle varie fasi della sua infanzia e adolescenza, del viaggio con le ossa della Madre morta in spalla, della grande battaglia con il Lupo…

LEF In effetti potrebbe trattarsi di una semplice scelta estetica - già ne L’Isola (Orecchio Acerbo, 2008) l’autore aveva usato questo ritmo nelle sequenze - del resto, però, il quattro, fin dalla preistoria, fu usato simbolicamente per indicare il solido, il tangibile, il terrestre, il materiale. Che proprio questo ritmo sia stato scelto per scandire le fasi del racconto mi pare significativo, perché sembra perfettamente corrispondere soprattutto alla natura di questa mater-materia, che condiziona il protagonista per tutta la sua crescita, e anche quando è morta, e persino durante il confronto col Lupo: l’Uomo, schiacciato dal peso di un’eredità ingombrante e pervasiva (se ne libererà solo dopo la sepoltura), “combatte” con gli strumenti da lei imposti: la stessa scansione infatti ritma anche la battaglia finale...

SAN …una battaglia epica, contro un nemico possente. La tavola che lo presenta, una doppia pagina nera completamente abitata dal Mostro – umano quasi troppo umano – e dalla sua zampa minacciosa, pronta a colpire. Eppure il Lupo non c’è. Il nemico non è qualcosa che vive nel mondo reale. E’ una notte dell’anima che lo sorprende.

LEF Un nemico possente ma irreale dici… Si, è vero certo, ma è irreale dal punto di vista di una realtà letterale, che dà credito e valore solo a ciò che si può toccare, spiegare: questa è la realtà della materia (la Madre), materialismo razionalistico.

SAN Senza dubbio. Per farsi uomo il ragazzo deve emanciparsi da questa Madre che non lascia spazio, che vuole proteggere a tutti i costi (“Povero bambino, cosa sarà di te, ora che non ci sono più io al tuo fianco?”). Combattendo, si assume la responsabilità della propria vita. E la possibilità stessa di viverla.

LEF Si, infatti il racconto di Greder parla di una iniziazione. Ogni iniziazione ha il suo lato cruento e orrorifico. Non la si può intraprendere se ci si rifiuta di affrontare quello che ci fa paura; se ci si lascia soffocare da un eccesso di difesa. Il Lupo (il guardiano) difende questo passaggio iniziatico e sua funzione essenziale è di mettere alla prova l’iniziato.

SAN Come a dire che bisogna confrontarsi con il buio per crescere.

LEF Il buio, il profondo, il mondo infero…l’anima stessa ci chiama verso l’abisso a compiere una discesa (nekya), necessaria anche se dolorosa, necessaria come la morte della Madre in cambio della vita del Ragazzo.

SAN Non è un caso che la storia ”vera”, la sua storia, comincia proprio quando il libro finisce. La Città è l’orizzonte di possibilità del Ragazzo, la terra promessa, da cercare, da conquistare. Una Città che non vediamo mai, se non nella copertina e in pochi altri cenni linguistici e visivi più o meno diretti. Una Città “grande dove il cielo era sempre grigio e l’inverno, a volte, dura tre anni”. Una Città anche inquietante, quindi, abitata da uomini festanti, ma che indossano delle maschere. Sono dei simulatori. Ricordano i protagonisti dei quadri di Ensor…

LEF …è vero! E inoltre, le poche immagini della Città contraddicono, col loro colore, unica nota in un libro pressoché monocromo, contraddicono la descrizione che l’autore stesso ne dà all’inizio (quella che tu hai appena citato). E’ una Città di saltimbanchi, circo, carnevale, ballo in maschera e si mostra nella sua veste di elemento sovversivo, rappresenta il rovesciamento dell’ordine materiale e razionalistico, è un’anima pulsante di vita, materia immaginifica in cui ci si può perdere, ma la maschera è qualcosa che stimola l’indagine, offre la fatica della scoperta. Insomma, Greder con questo lavoro dimostra una grande capacità di confrontarsi con l’archetipo…

SAN …riuscendo a plasmare, a trasfigurare la sua stessa vicenda autobiografica (in una risata confessa l’unica differenza tra la Madre del libro e la sua genitrice: quest’ultima è ancora viva!) in una storia in cui tutti possono riconoscere l’universalità di un meccanismo. Dopotutto, «conoscere le nostre paure è il miglior metodo per occuparsi delle paure degli altri». Jung docet.

LEF Il metodo di lavoro dell’artista consiste nell’abbassare il livello di “ascolto” fino a raggiungere una presa diretta con l’anima, con l’immaginale, per ripescare un materiale scottante che non sempre risulta subito chiaro neppure all’autore e - invidiabile, prezioso risultato – è il dato di raro equilibrio che si stabilisce tra testo e immagine, dove l’uno non può fare a meno dell’altra per una reale e completa comprensione del racconto…

SAN Non si nota nessuna ridondanza, nessuna sovrapposizione, nessun facile e ammiccante estetismo. Armin Greder consegna al lettore le chiavi d’accesso a un mistero, ossequioso – forse – del fatto che «la porta dell’invisibile deve essere visibile». Una visione fatta di parole e immagini che, alla fine, parlano la stessa lingua.

Biografia: Armin Greder, nato il 24 maggio 1942 in Svizzera, è architetto, fumettista, Graphic designer e illustratore. Emigrato in Australia nel 1971, insegna design e illustrazione al Queennsland College of Art. Al suo lavoro sono state dedicate numerose mostre personali e collettive dalla Germania fino al Giappone. Nel 1996 ha ricevuto il Bologna Ragazzi Award con The Great Bear, e l’IBBY Honour List. L’isola, edito da Orecchio Acerbo nel 2008, è il suo primo libro come autore narrativo, e ha ricevuto moltissimi premi in tutto il mondo.
Silvia Santirosi – Veronica Leffe

3 febbraio 2009

Shaun Tan, L’approdo, elliot edizioni, pp. 126, euro 22,00

Spesso siamo convinti di azioni e intenzioni che inevitabilmente vengono smentite dal risultato finale del nostro operato. Uno scrittore come Vittorini sentì il bisogno di precisare nella nota in calce al suo Uomini e no, alcune riflessioni, quasi una giustificazione, del suo lavoro: “In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali; tutto è legato al mondo psicologico dell’uomo e nulla vi si può affermare di nuovo che non sia pura e semplice scoperta umana. La mia appartenenza al Partito Comunista indica quello che voglio essere, mentre il mio libro può indicare soltanto quello che in effetti io sono”. Estrema, dolorosa consapevole ammissione di un uomo mosso da un profondo impegno etico e morale che, invece, è solo un artista! Vittorini vuole cambiare il mondo reale, ma, suo malgrado (e per fortuna), scivola e inesorabilmente discende, al mondo infero, al mito, lasciando alla letteratura italiana del dopoguerra, nonostante gli intenti realisti, l’unico vero romanzo italiano surrealista.

Ne L’approdo, racconto senza parole (forse quindi grafic novel per eccellenza), Shaun Tan come Vittorini, parte certamente da un intento e da un impegno etico e morale, vorrebbe affrontare una faccenda delicata e di scottante attualità come il tema dell’immigrazione (mettendosi così apparentemente sulla stessa scia di autori impegnati, quali Art Spiegelman, o Joe Sacco, maestri del reportage illustrato). Nella nota al testo si preoccupa di fornire dati e spiegazioni sul tema del suo racconto e sul metodo del suo lavoro: diligentemente snocciola una serie di riferimenti, nomina tutti i materiali iconografici, che vanno dalle foto storiche, ai quadri, ai film famosi; cita testi di storia, i racconti orali, la storia personale, della sua stessa famiglia (che dalla Malesia emigrò in Australia), tutto questo quasi fosse uno studioso, un ricercatore scientifico o un giornalista più che un artista!, come a voler rafforzare il valore positivo del suo operato, a voler dire che questo affonda le radici in una precisa, concreta, realtà.

Ma poi, cosa racconta, cosa è veramente questa storia muta?In effetti, il racconto di Shaun Tan, sta al tema sociale dell’immigrazione come i fatti accaduti nel mondo diurno stanno al sogno o mondo infero (come lo definisce Hillman). Del sogno infatti ha la struttura e l’andamento questo libro. Sfogliando le sue pagine, nonostante la minuziosa nettezza fotografica dei disegni, nonostante l’insistenza cinematografica di alcune sequenze, come se l’autore fosse rimasto impigliato nell’esercizio automatico (da regista), di uno story board, si respira la stessa aria densa e pesante di un sogno, un’aria che ribolle e fermenta, che si fa epifania e poi sfugge. Il fluire ininterrotto delle immagini a volte si fa serrato, a volte rallenta e si gonfia dilatandosi senza preoccupazione alcuna (evviva!), di una qualsiasi coerenza narrativa: racconto per eccellenza anticinematografico . Shaun Tan usa le tecniche che conosce (quella del fare cinema), e i materiali acquisiti nella ricerca (quelli elencati nella nota suddetta) e, con procedimenti da alchimista li trasforma in pura sostanza animica, conduce il lettore silenziosamente in un drammatico percorso, vero viaggio iniziatico. Linguaggio forte, intenso, pregnante, essenziale: l’evidenza assoluta dell’immagine trascende la cronaca, il dato storico, l’aneddoto sentimentale, va oltre l’intrattenimento per farsi immagine onirica, psichica, mitica, divina. L’artista come vaso per un’immagine, che, alchemica, misteriosa, enigmatica, si rivela ricca di anima, viva e reale e autonoma, come quella dei sogni.

Veronica Leffe

29 gennaio 2009

SALUTI

- Ciao! - disse mentendo.

(Anonimo)

28 gennaio 2009

Roberto Bolaño 2666- I, Adelphi, pp 433, euro 19,00 Roberto Bolaño 2666 - II, Adelphi, pp. 672, euro 22,00





Compito ingrato, se non impossibile, accingersi a scrivere una recensione di 2666, e non solo per la difficoltà di tracciarne un esaustivo riassunto ma soprattutto per la consapevolezza che per lungo tempo non riuscirò a trovare qualcosa di più bello, emozionante e commovente. E potrei continuare, anzi è proprio questo il rischio: far sfilare aggettivi a piacimento nella vana speranza di rendere la grandezza di questo autore; autore totale come la sua opera. Certo i miei occhi sono inebriati, innamorati e ancora stanchi della fagocitante lettura, mentre forse la penna richiederebbe freddezza. Eppure, riponendo il volume (o i due volumi) nello scaffale della libreria (se non amate gli altarini), ci si commuove di sé, spiazzati come davanti alla morte. Morte che tristemente coincide con quella di Roberto Bolaño, scomparso nel 2003, poco dopo aver concluso il romanzo, aspettando un trapianto di fegato.
Romanzo totale, perché se si può accennare alla struttura, non è utile incastonare 2666 in alcun genere; almeno non in uno solo.
Romanzo d’avventura, verrebbe da dire per semplificare - cosa certo non amata dall’autore- ma come non trovare nelle 1100 pagine di questa sconfinata avventura, senza cedere un passo di fronte al lirismo poetico che ne accompagna ogni singolo paragrafo, il romanzo di formazione, d’amore, psicologico, il noir, l’hard boiled fino alla più fredda cronaca. Del resto, ci sarebbe il materiale non solamente per 1000 pagine ma per 10.000, se non si affrontasse il rischio d’incorrere in accuse di alto tradimento. Tante, tantissime storie, alcune appena pennellate, tracciate sembra, per puro e personalissimo piacere narrativo; altre che meritano decine di pagine. In più interventi Bolaño ha detto di pensare alla letteratura come una cosa autonoma, capace di nascere e proseguire il suo cammino in maniera autosufficiente, forse per questo l’autore pur capace di forgiarne di preziosissime, non ha mai intenzionalmente fornito ai suoi scritti delle sicure stampelle come possono essere i generi, se non è dunque utile analizzarli, può esserlo almeno sottolineare il tema ricorrente dei romanzi dello scrittore cileno. In 2666 come nei Detective Selvaggi, il motore, il cuore narrativo è la ricerca (sempre uno scrittore scomparso), tema che nell’autore sembra assurgere a un compito divino, un esercizio salvifico del proprio vivere. Un’indagine costruita attraverso un’infinità di voci che amano perdersi per poi ritrovarsi quando ormai non te lo aspetti, alcune apparentemente capziose ma egualmente capaci di tracciare personaggi grandi e minori, tutti utili alla causa. Questo è il cosmo di Roberto Bolaño.
Rodrigo Fresán (Esperanto; I giardini di Kensington) scrittore amico dell’autore cercando di riassumere le sue impressioni sulla lettura di 2666, ha presto abbandonato l’impresa riuscendo a scrivere solamente: «Niente da dire. Difficile scrivere qualcosa su tutto».
Il tutto prende forma dall’Europa a Santa Teresa, città di confine nel deserto di Sonora. Il libro comincia, infatti, con l’amicizia di quattro critici di diverse nazionalità (francese, inglese, italiana, spagnola), legati da una stessa passione-ossessione per il misterioso scrittore Benno von Arcimboldi. Tre di loro seguiranno le tracce dello scrittore fino in Messico, a far loro da guida (siamo già nella seconda parte) il professore cileno Amalfitano, che dopo essere sfuggito alla dittatura di Pinochet e aver girato il mondo, si stabilizza a Santa Teresa, nome che cela la vera Ciudad Juàrez, con sua figlia Rosa. Insieme alla ragazza andremo alla scoperta di Oscar Fate, antieroe per eccellenza e redattore sportivo di colore chiamato in Messico per seguire un incontro di boxe (terza parte). Dopo un anno d’attesa escono sempre per i tipi dell’ Adelphi le ultime due parti. La parte dei delitti, delle efferatezze raccontate con diagnostica freddezza e al contempo con quel lirismo che l’accomuna in parte alla poetica di Edgar Lee Master, infatti, dietro a un catalogo di esemplari umani e vite diverse si cela un’ unica matrice che ci racconta vite disperate e terribilmente concluse. Quella dei delitti è la parte più lenta, una pausa nera di terrore che Bolaño concede e si concede prima dell’epilogo: La parte di Arcimboldi. La ricerca sembra conclusa, il lettore verrà a sapere qualcosa in più della misteriosa vita dello scrittore tedesco, della sua famiglia, dell’amore per la sorellina e della metamorfosi che l’ha trascinato fino al deserto di Sonora. Eppure non ci basta, vorremmo sapere di più, vorremmo sapere tutto, se Roberto Bolaño è Benno Von Arcimboldi oppure Amalfitano o se solamente nel detective selvaggio Arturo Belano possiamo ritrovarlo, vorremmo sapere Roberto Bolaño ancora vivo, magari perso nei suoi deserti, vorremmo ci regalasse ancora tante pagine e magari, vedere edite anche in Italia le sue poesie.
Massimiliano Di Mino

27 gennaio 2009

Giacomo Leopardi, Memorie del primo amore, Adelphi, pp.62, euro 5,50

Sarò volgare io ma certe volte mi parrebbe meglio, piuttosto che stare tanto a pensare alla felicità, dico individuale come dei popoli; sarebbe meglio pensare a vivere: io, per esempio, preferisco vivere.
Voglio fare un esempio: in questo ultimo anno di capitalismo avanzato è andato molto di moda (moda, ma menstrua beltà dice meglio il Giacomo in persona) questo Donne che amano troppo di Robin Norwood che è un libro che parla di donne che amano troppo gli uomini e che, cioè, esclude dai suoi interessi le donne che amano troppo le donne, qualsiasi cosa possa amare un uomo e, nella sua interessata micragna, l’umanità in genere.
Infatti l’interesse, ben ripagato in termini commerciali, della strizzacervelli americana è quello di trattare il dolore di amore come una dipendenza dal quale liberarsi per essere felici: la Norwood ha una ricca esperienza, infatti, come terapeuta, avendo lavorato per oltre dieci anni in quei famigerati centri statunitensi dove si combatte l’alcolismo e l’assuefazione alle droghe: centri infallibili che, per fare un esempio importante, hanno guarito uno sballatone come George Bush rendendolo in grado di dichiarare guerra a mezzo mondo e distruggere, oltre le vite di molti essere umani, le più importanti testimonianze della nostra civiltà devastando la terra dove essa è stata fondata.
Non è un caso: la civiltà nel suo senso più esigente è cultura; la cultura è anima: come dichiara la stessa Norwood la cura alla sofferenza e dipendenza d’amore come dai tossici (e perché non dire chiaramente dalla vita stessa?) è la rinuncia ascetica a questo mondo; la via spirituale: la sconfitta di quel vecchio diavolo perverso e polimorfo, quel bambino che ama chi può quando può, che è l’anima (anima, diceva a un dipresso il santo Paolo, dove è il tuo pungiglione?): le donne amino gli uomini, gli uomini amino le donne: poco e con discrezione (solo per dio, c’era scritto sui mutandoni delle nonne).
E se uno, invece, gli piacesse più vivere che essere felice?
Ecco che qualcuno ti ristampa Memorie del primo amore, un diario che Giacomo Leopardi, divenuto un classico giusto in tempo perché nessun giovane lo legga se non nel tedio ed odio dell’ora scolastica, ha scritto quasi ventenne. Bisogna calcolare che a ventuno anni Leopardi si reputava, e non a torto, decrepito, e che il giovane, dalla frequentazione di una tale decrepito, di una tale saggezza sdegnosa del ridicolo progressivo e magnifico della nostra sorte di moderni, ne potrebbe uscire con quel tanto di pericoloso che non piace alla gente che piace.
Cosa faceva a vent’anni Giacomo Leopardi per divenire tanto pericoloso? Incontrava tale parente Geltrude Cassi Lazzari di cui si innamorava nel modo e nella maniera in cui si dice nell’elegia Il primo amore e, segnatamente, secondo una scrupolosa strategia sentimentale come è dettagliata in queste pagine di diario.
Il testo è più chiaro di un manuale: per amare, cioè vivere, bisogna essere disponibili all’impresa: Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da più d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti. Prima la soggezione all’amore e alla bellezza, l’invasamento: e solo poi un oggetto qualsiasi: tanto qualsiasi che, in effetti, la Geltrude pare a Giacomo, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano. Non bella, certo: a malapena l’oggetto che, unico o passabile, gli si prestava pronto alla sua esigenza di essere dominato dall’amore. E voi direte: ma perché voleva esserne così tanto e a tutti costi soggetto a detto sentimento? È ovvio: voleva avere a che fare con il suo caro dolore.
E va bene, non sarebbe facile ridurre a burletta o a caso clinico questo avere a caro il dolore?
Tutto è facile, fuorché vivere: non so come sia stato come poeta, ebbe, non proprio parola per parola, a dire il leopardiano Ungaretti, ma come uomo ho sofferto, ho vissuto. L’Ungaretti che amava lo stacco di coscia. E in bella compagnia: l’Apuleio che, in preda alle enormi passioni asinine, ha penato, penato prima di sciogliere, e riconoscersi, nel dolore davanti a quella Luna, regina del cielo, o alma Cerere, antichissima madre delle messi, dea dai tanti nomi e dai tanti e qualsiasi aspetti, pure quello della membruta e sgraziata Geltrude,e dell’uomo e della donna che amiamo.
Dea dai tanti nomi questa occasione di patimento, di ossessione, di dipendenza, di perversa e polimorfa vita: una vita per cui vale la pena di vivere.

Pier Paolo Di Mino

H.G.Wells, Nel paese dei ciechi, Adelphi, pp. 60, euro 5,50

Non si può fare a meno di scrivere e riscrivere, a parole o fatti, questa eterna storia (così umana nella sua aspirazione ad andare oltre l’umano) di diventare re: the man who would be king; ma ancora l’imbroglione Orélie che si consacra imperatore di Patagonia; Sertorio che si fa adorare come un re divino dai suoi celtiberi; Arnoldo di Brescia e la sua repubblica santa; Kurtz, ovvio: e D’annunzio.
Il n’ya de nouveau que ce qui est oublié, ci avverte la marchande de modes della buona Maria Antonietta, Madame Bertin.
È questa storia di uomini che diventano re è, infatti, sempre nuova, così eterna e umana, perché è così eterno e umano il bisogno di dimenticare questo istinto basilare al massacro e al dominio, o alla conversione; questa piega, così facile a prendersi, a ritrovare in sé il troppo di animale, o il troppo di divino.
Potremmo rileggerla, questa storia, mille volte di seguito, in una qualsiasi delle sue versioni senza mancare di provare ogni volta il medesimo incantato ribrezzo, la coscienza sapientemente annebbiata di appartenere a questo orrore (The horror!, the horror!), la stessa esaltata noia e gioia e, poi, la medesima, identica necessità di dimenticare e di tornare al nostro mondo dove (fa dire ad Àlvar Nùñez Cabeza de Vaca il prezioso Haniel Long) “la gente vive in case di pietra, coltiva gli stessi campi un anno dopo l’altro, costruisce granai per stivare messi. ”
Nella parabola di Long questo Nùñez Cabeza de Vaca decide di rifiutare recisamente il mondo così come pare che sia, convinto che la vita collettiva prosciughi il nostro latte; che la collettività ci dia l’illusione fatale di poterci esonerare dalle nostre personali responsabilità nei confronti dell’altro; e che una vita che si chiami vita è solo quella che lui ha vissuto in mezzo agli indios curandoli in virtù dei ritrovati poteri che il vecchio mondo gli aveva disseccato: votandosi insomma ad una particolare regalità, quella del santo.
Sia detto non per caso che in questa storia, volere sottomettere o salvare un popolo, è cosa del tutto indifferente: il punto non è farsi riconoscere come un dio o come un animale, ma farsi riconoscere. Farsi investire, dall’altro, della regalità.
Come in un sogno, certe opportune e garbate distinzioni non si danno. E se la nostra Storia è un incubo, direbbe Joyce, questa storia è, invece, il sogno.
E, come tale, sembra che abbia voluta riproporcela anche H.G. Wells in questo ipnotico e spaventoso Nel paese dei ciechi dove, sarà sicuramente un caso, un tale Nùñez, in Sudamerica, finisce, in seguito ad un incidente d’alta montagna, in un perduto e leggendario villaggio di ciechi: un villaggio di vecchissimi colonizzatori, isolato in una vallata, e colpito da una maledizione che ha reso i suoi abitanti geneticamente ciechi. I ciechi in questione, dopo generazioni, si sono perfino scordati della vista, e la loro filosofia, la loro religione, la loro vita pratica e sentimentale esclude il concetto stesso di visione: il che li rende sufficientemente altro da noi da istigare in chicchessia la feroce volontà di dominarli o liberarli.
Il nostro Nùñez, fidando sul luogo comune secondo il quale l’orbo in una terra di ciechi è re, decide, insomma, di dominarli. In fondo non dovrà fare altro che dimostrare la propria superiorità esibendo una facoltà come la vista; che, però, secondo ogni evidenza dei ciechi è anche una facoltà del tutto non esistente, frutto di una mente primitiva, malata, e blasfema: morale, Nùñez viene impiegato per lavori pesanti e servili, finché, come liberandosi da un sogno, non fugge, risale le montagne e non ritorna a vedere le stelle qui del nostro mondo.
Questa è l’unica vera differenza possibile, quello fra l’incubo piatto e grigio della nostra Storia fatta da gente che vive in case di pietra, coltiva gli stessi campi un anno dopo l’altro, costruisce granai per stivare messi, e questo sogno esaltato e orribile in cui un uomo, a contatto con l’altro (con l’inferno che è l’altro), si scopre bestia o dio; scopre il proprio diritto a comandare e scopre che questo diritto glielo può solo comandare un altro: che essere re è servire come un animale da soma; è pulire le piaghe malate del prossimo tuo.
E non c’è re che nella terra dei ciechi, al cui altare senza immagini, alla fine, dobbiamo tutti versare il nostro sacrificio.
Pier Paolo Di Mino