30 marzo 2009

«Mistero grandioso e commovente»: la poesia di Aldo Onorati - Parte prima

Ci s’intenda, anzitutto, su un livello critico preliminare, che può valere come soglia del discorso. Dice bene Angelo Marchese quando scrive che il poeta «è tale non tanto per ciò che ha pensato o sentito, ma perché ha parlato. Egli è un creatore non di idee, ma di parole. Tutto il suo genio sta nell’invenzione verbale». È importante, certo, che cosa si dice; ma più importante ancora è come lo si dice. L’inimitabile magia della iunctura. Sta tutto lì il segreto. Il mistero del carattere. Il segno distintivo dello stile.
Di Aldo Onorati vorrei sottolineare - oltre dunque al “che cosa”, cioè lo spessore umano dello scrittore e il genuino patrimonio di valori e contenuti che fa da retroterra alla sua arte - anche e soprattutto il “come”, cioè il talento linguistico che rivela e riversa dentro le parole, e il modo in cui le accosta, le fa incontrare, permettendo loro di sprigionarsi. La sua valenza autoriale si avverte anzitutto nell’impronta che egli lascia, attingendone l’essenza, la forza, la pregnanza, su alcuni tra i problemi e i portati più significativi del linguaggio poetico-letterario novecentesco. Al punto che è capace di ricapitolarlo e ricrearlo dall’interno, in modi sempre originali.
Onorati è uno scrittore che sa sempre come sorprendere. E mai per manierismo, per lambiccato compiacimento. È sempre originale perché autentico, “centrato”, a contatto con le fonti della propria creatività (cioè dell’Essere). Creativo perché libero, e libero perché creativo. Proprio giacché dietro l’artista c’è l’uomo che vive e che palpita: l’uomo di carne, di nervi e di sangue. E non c’è artista che tenga, pur quando dotato, se dietro non c’è, corposamente, l’uomo con la sua pasta espressiva, archetipa, organica, esistenziale; l’uomo intero, che sa mantenersi vivo e presente, anche quando crea. L’uomo col bagaglio delle sue esperienze - estri, furori, sentimenti. Con gli incontri che ha avuto. Con il retaggio dei giorni attraversati. Con i suoi occhi eterni da ragazzo, nonostante le rughe incise dal tempo.
La lingua poetica di Onorati (ed è tale anche quando scrive in prosa) non suona mai a vuoto, come talvolta avviene in autori anche conclamati; ma è sempre umana, nel senso pieno del termine: e quindi corposa, plastica, materica, prensile, vera. Si leggano, per conferma, questi versi estratti dalla vasta miniera del suo corpus poetico:

“Ho visto nella notte l’ombra mia stampata dalla luna/Il lago era carne liquefatta”;
“Lasciatemi un’ampolla di vino ed una pèsca/reliquia dell’estate. Quanto mare/al di là degli scogli… ed il sapore di liquirizia del terreno. E noi/sotto il sangue dei gelsi”;
“I microfoni cigolano/al vibrio delle corde. Allo strascichio delle spazzole/sui tamburi, s’appannano/i bubulii lunari dei saxofoni”;
“alza la pioggia gusci/di chiocciole, piumaglia/di tacchini sgozzati”.

La lingua di Onorati è una “creta metamorfica” che mette le cose davanti agli occhi, vive e nude. Una scrittura sintetica e agglutinante, che illumina di squarci e lampi: con due parole sa dipingere un mondo.
Il fatto è che Onorati, buon per lui, appartiene al versante degli autori linguisticamente “grassi”: ricchi, succosi, organici, godibili, corporali. La linea che attraversa Petronio, Apuleio, Dante, Pulci, Folengo, Rabelais… per arrivare fino a quel gigante nascosto del Novecento che è Domenico Rea. Onorati poeta mette d’accordo i poli per molti versi inconciliabili di Omero e Orfeo: concretezza icastica di contenuto e potere magico del canto. Altrove ebbi modo di paragonarlo idealmente, per la potenza ancestrale dei contenuti, a un Verga tradotto però nella felicità espressiva e linguistica di un D’Annunzio.
Dunque una scrittura pregnante, di alta densità semantica e di grande musicalità, che procede spesso per ellissi, per sottrazione: e il “non detto” si fa sentire, parla attraverso il detto che opera, verbo vivo, alla sua rappresentazione. È, peraltro, la soglia d’ombra che illumina la luce. Ed è dal taglio che ricuci la ferita.
Ecco allora questa forma poetica che “rende tattile il vuoto” per consentirne l’esplorazione e, specularmene, “pianta le pietre sull’abisso” per opporvi un divario di resistenza. Onorati stesso ammette che “la parola è materia”. Materia primordiale: cioè articolazione dell’origine, apertura della luce, scintilla che trasale, sillabazione mitica del mondo. Come scrive il succitato D’Annunzio - poeta che Onorati ammira molto - quasi alla fine di Maia-Laus vitae:

“O parole, mitica forza (…) / Io vi trassi con mano/casta e robusta dal gorgo/della prima origine, fresca/come le corolle del mare (…) / Io vi disposi nei modi/dell’arte così che la vita/vostra rivelò le segrete/radici, le innumere fibre/che legano tutta la stirpe/alla Natura sonora (…) Splendete e sonate, o parole,/ in questo Inno che è il vasto/preludio del mio novo canto./ Converse io v’ho novamente/ in sostanza umana, in viva/polpa, in carne della mia carne,/ in vene di sangue e di pianto”.

Parole che noi stessi potremmo apporre in epigrafe a quelle di Onorati; e lui stesso dire delle proprie.
Tuttavia, lo sappiamo, occorre stare attenti con le classificazioni letterarie, spesso fuorvianti e arbitrarie. Lo scrittore da “incasellare”: quasi a depotenziarlo, a renderlo meno pericoloso. Capire l’autore: purché non si traduca in operazione ambigua, riduttiva, frettolosa. Più che capito, a ben vedere, l’autore andrebbe com-preso (nel senso etimologico di “prendere con”); giacché, quanto più è grande, tanto più “non cape” negli schemi entro cui vogliamo imprigionarlo. Va accolto nella sua complessità. Occorre, per quanto possibile, parlare con la sua stessa voce.
Di Onorati si dice che è un buon narratore. Ha fatto evidentemente comodo classificarlo anzitutto come tale. E il poeta? Qualcuno potrebbe obiettare: perché, non è “poeta” quando narra? Certo che lo è. Ma, voglio dire, il poeta che scrive versi? Quello che consapevolmente accoglie ed usa la forma lirica? L’“alter ego” del dantista che incanta le platee di mezzo mondo; e del tenore mancato, che in gioventù studiava canto dal maestro Ranucci? E l’artista sopraffino, distillato dal contatto vivificante con “mostri sacri” del calibro di Petrocchi e Marmorale, all’Università di Roma, attraverso la cui lezione ha potuto maturare un bagaglio quasi inarrivabile di conoscenze metriche, di questioni tecniche, di padronanza alchemica del verbo?
Risponderò con un’altra domanda, che poi, in fondo, tutte le racchiude: e l’autore?
Perché quando uno è autore, intendo autore vero, è inutile e talvolta offensivo imporgli certe classificazioni. Scrive lo stesso Onorati (ed è così, evidentemente, che chiede d’essere inteso): «Io non faccio differenze tra poesia e saggi, perché la matrice unica è l’individuo, ed è impossibile scindere le cose attraverso dati esterni, quali il genere letterario, o la distinzione fra lirica e prosa in base all’accidente».
È vero: quando uno è autore la sua voce, qualunque cosa scriva e comunque la scriva, è unica, inconfondibile, quella. Deve poter bastare un verso o un rigo appena, per dire: è lui, eccolo, si riconosce.
Eppure, fra il verso e il “parlar diffuso” (oratio soluta), ci sono importanti e non eludibili differenze tecniche. La poesia frantuma la consecuzione logico-sintagmatica della prosa. La linearità di quest’ultima è insidiata, nella poesia, da una controspinta che riporta indietro la nostra percezione visiva e acustica. Gli stessi “versi” sono – etimologicamente – “ritorni”, mentre la prosa è un discorso che procede per tutta la riga, in linea retta. Rispetto alla prosa, la poesia valorizza al massimo grado l’insieme dei materiali linguistici. Quelle cose devono esser dette da quelle parole, in quella particolare sequenza, non altrimenti. In poesia, tutto è strettamente necessario. Perciò, non basta andare a capo prima del margine destro del foglio, per fare un verso. La poesia è un valore comunicato attraverso la parola. La parola poetica deve quindi staccarsi dal linguaggio quotidiano; ma senza partire per la tangente (come spesso fanno le avanguardie): deve sempre permettere al lettore di poter dire “Ecco, scriverei questo, se sapessi dirlo in versi”.
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Marco Onofrio