27 gennaio 2009

Giacomo Leopardi, Memorie del primo amore, Adelphi, pp.62, euro 5,50

Sarò volgare io ma certe volte mi parrebbe meglio, piuttosto che stare tanto a pensare alla felicità, dico individuale come dei popoli; sarebbe meglio pensare a vivere: io, per esempio, preferisco vivere.
Voglio fare un esempio: in questo ultimo anno di capitalismo avanzato è andato molto di moda (moda, ma menstrua beltà dice meglio il Giacomo in persona) questo Donne che amano troppo di Robin Norwood che è un libro che parla di donne che amano troppo gli uomini e che, cioè, esclude dai suoi interessi le donne che amano troppo le donne, qualsiasi cosa possa amare un uomo e, nella sua interessata micragna, l’umanità in genere.
Infatti l’interesse, ben ripagato in termini commerciali, della strizzacervelli americana è quello di trattare il dolore di amore come una dipendenza dal quale liberarsi per essere felici: la Norwood ha una ricca esperienza, infatti, come terapeuta, avendo lavorato per oltre dieci anni in quei famigerati centri statunitensi dove si combatte l’alcolismo e l’assuefazione alle droghe: centri infallibili che, per fare un esempio importante, hanno guarito uno sballatone come George Bush rendendolo in grado di dichiarare guerra a mezzo mondo e distruggere, oltre le vite di molti essere umani, le più importanti testimonianze della nostra civiltà devastando la terra dove essa è stata fondata.
Non è un caso: la civiltà nel suo senso più esigente è cultura; la cultura è anima: come dichiara la stessa Norwood la cura alla sofferenza e dipendenza d’amore come dai tossici (e perché non dire chiaramente dalla vita stessa?) è la rinuncia ascetica a questo mondo; la via spirituale: la sconfitta di quel vecchio diavolo perverso e polimorfo, quel bambino che ama chi può quando può, che è l’anima (anima, diceva a un dipresso il santo Paolo, dove è il tuo pungiglione?): le donne amino gli uomini, gli uomini amino le donne: poco e con discrezione (solo per dio, c’era scritto sui mutandoni delle nonne).
E se uno, invece, gli piacesse più vivere che essere felice?
Ecco che qualcuno ti ristampa Memorie del primo amore, un diario che Giacomo Leopardi, divenuto un classico giusto in tempo perché nessun giovane lo legga se non nel tedio ed odio dell’ora scolastica, ha scritto quasi ventenne. Bisogna calcolare che a ventuno anni Leopardi si reputava, e non a torto, decrepito, e che il giovane, dalla frequentazione di una tale decrepito, di una tale saggezza sdegnosa del ridicolo progressivo e magnifico della nostra sorte di moderni, ne potrebbe uscire con quel tanto di pericoloso che non piace alla gente che piace.
Cosa faceva a vent’anni Giacomo Leopardi per divenire tanto pericoloso? Incontrava tale parente Geltrude Cassi Lazzari di cui si innamorava nel modo e nella maniera in cui si dice nell’elegia Il primo amore e, segnatamente, secondo una scrupolosa strategia sentimentale come è dettagliata in queste pagine di diario.
Il testo è più chiaro di un manuale: per amare, cioè vivere, bisogna essere disponibili all’impresa: Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da più d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti. Prima la soggezione all’amore e alla bellezza, l’invasamento: e solo poi un oggetto qualsiasi: tanto qualsiasi che, in effetti, la Geltrude pare a Giacomo, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano. Non bella, certo: a malapena l’oggetto che, unico o passabile, gli si prestava pronto alla sua esigenza di essere dominato dall’amore. E voi direte: ma perché voleva esserne così tanto e a tutti costi soggetto a detto sentimento? È ovvio: voleva avere a che fare con il suo caro dolore.
E va bene, non sarebbe facile ridurre a burletta o a caso clinico questo avere a caro il dolore?
Tutto è facile, fuorché vivere: non so come sia stato come poeta, ebbe, non proprio parola per parola, a dire il leopardiano Ungaretti, ma come uomo ho sofferto, ho vissuto. L’Ungaretti che amava lo stacco di coscia. E in bella compagnia: l’Apuleio che, in preda alle enormi passioni asinine, ha penato, penato prima di sciogliere, e riconoscersi, nel dolore davanti a quella Luna, regina del cielo, o alma Cerere, antichissima madre delle messi, dea dai tanti nomi e dai tanti e qualsiasi aspetti, pure quello della membruta e sgraziata Geltrude,e dell’uomo e della donna che amiamo.
Dea dai tanti nomi questa occasione di patimento, di ossessione, di dipendenza, di perversa e polimorfa vita: una vita per cui vale la pena di vivere.

Pier Paolo Di Mino