27 febbraio 2009

Nanni Balestrini, Sandokan. Storia di camorra, Einaudi, 2004, euro 13


Destino curioso quello che accompagna questo romanzo di Nanni Balestrini: “Sandokan, storia di camorra”, stampato nel 2004, circa due anni prima del più fortunato saggio di Roberto Saviano “Gomorra”. Storia ricca di contraddizioni perché il libro, nonostante sia un’accusa durissima contro la Camorra e le commistioni fra affari illeciti, economia e politica, appena uscito gode di una certa popolarità proprio in quei paesi del casertano dove si svolgono i fatti. Viene esposto nelle vetrine dei negozi e comprato soprattutto dai giovani affiliati: i “muschilli”. I boss ne sono evidentemente compiaciuti se permettono la circolazione del libro, lo comprano perché è una storia che parla di loro.
Balestrini racconta, attraverso gli occhi di un ragazzo, la storia-saga dell’ascesa, nel casertano, del clan dei Casalesi che raggiunge l’apice con Antonio Bardellino. Nella periferia dei paesi coinvolti, i protagonisti, quasi tutti analfabeti, costruiscono le loro ville gigantesche e fanno il verso ai signori. Presto la lotta fra i vari boss sfocia in una sanguinosa faida interna che porta all’arresto, nel 1998, di Francesco Schiavone detto “Sandokan”, per la vaga somiglianza con l’attore Kabir Bedi.
Per quanto riguarda i contenuti, è un romanzo-reportage gelido ed agghiacciante che ci svela il retroterra di sottosviluppo e disperazione di cui si nutre la camorra. È l’attraversamento di quelle terre dove lo stato non ha mai attecchito ed i clan controllano ogni gesto e ogni sguardo. L’organizzazione decide la tua vita, dalla gerarchia che vige fra i bambini sul pulmino della scuola alla vita più intima: due ragazzi non possono appartarsi in macchina, se li scoprono li ammazzano di botte, il boss non vuole. La parabola del clan sfocia in un bagno di sangue e nell’arresto di “Sandokan”, ma la Camorra non finisce, cambia soltanto capo, perché la gente sembra non capire – cioè l’errore grande di chi si occupa di questi fenomeni è che non si rende conto di quello che è il vero problema è che non è soltanto questione di un gruppo di criminali di assassini di pazzi di persone che vogliono diventare ricchissimi nel più breve tempo possibile è proprio una questione di mentalità di qui – ed ancora – quando nasci non hai nessun diritto nessuna garanzia non hai niente che ne so in un altro paese qualsiasi ci sono servizi più o meno decenti quasi per tutti scuole più o meno pulite mezzi pubblici servizi comunali che funzionano più o meno bene ma almeno c’è l’idea che possano esistere invece qui da noi no qui da noi non c’è nulla ma proprio nulla non c’è un cazzo –.
Si è scritto molto sulla malavita organizzata, si sono girati decine di film ma l’originalità e la forza espressiva che caratterizzano questo romanzo, sono anche il frutto di quella ricerca formale e stilistica che caratterizza la prosa di Balestrini. L’autore utilizza un linguaggio innovativo e personale che perde la punteggiatura e si fa percussivo, modellandosi sulle strutture del parlato, si affida alle ripetizioni e alla voce in presa diretta del protagonista. La sua scrittura non è mai vuoto formalismo, bastano poche pagine per trovare il ritmo e venire catturati dal racconto. Balestrini infatti è uno scrittore epico, mai pacchiano, autore di saghe moderne come la trilogia “La grande rivolta” (Vogliamo tutto, Gli invisibili, L’editore), capace di descrivere la storia di questo paese con grande lucidità. Proprio per questo motivo è un autore scomodo, spesso accolto con un certo imbarazzo, ignorato o, peggio, costretto a forza su un piedistallo minore, nel limbo dei “grandi autori”.
Davide Dalmiglio

15 febbraio 2009

GIONA, Il libro di Giona, qualsiasi edizione a qualsiasi costo

Finalmente un bel racconto di viaggio, per il corpo del bucaniere, nonché, ovviamente, per mille baleni e altrettante balene. Il viaggio e il suo infinito campo semantico![1] Ricerca, cura, avventura letteraria, avventura militare, turismo. Sì, ma il vero viaggio?
Ismaele, sì, perché l'unico viaggiatore è il fuggiasco, foss'anche quello del finesettimana, Ismaele quando si imbarca sul Pequod si sente fare questa imbarazzante domanda dal suo datore di lavoro, il buffo Peleg: "perché ti vuoi imbarcare?" Ismaele, di tutto cuore, gli risponde che vuole vedere il mondo e, allora, quel vecchio demonio di un presbiteriano di un Peleg gli dice di andare a vedere oltre la prua cosa vede. Ismaele ci va e vede il mare, il mare, niente altro che tutto quel mare, goccia su goccia. Una visione lenta, ché il Viaggiatore trova nella pazienza la misura della propria anima. Vede il mare. Il nulla liquido.
Si viaggia per il nulla liquido e, detto questo, passiamo al vivo dell'argomento.

Giona (in ebraico Ionah, cioè colomba. Spirito libero e celestiale o spirito barbaro e nomade?) è il quinto dei Profeti minori, sia nel testo masoretico che nella Volgata. Nei LXX è il sesto.
Il libro di un profeta minore, dunque.
Prima considerazione a latere sui profondi motivi che rendono urgenti questo breve articolo: ci sono scrittori che vivono in uno stato di autidentificazione con il grande ("la letteratura italiana inizia con i primi versi della Commedia e finisci tutta co' mia" D'Annunzio) e altri che amano fingersi dei minori per diventarlo davvero(come il Calvino Italo). Scrittori minori. Profeti minori. Una passione a prescindere, insomma.
Giona, poi, era un profeta?
Questo piccolo libro si presenta più sotto l'aspetto di un racconto che di una profezia. Giona, primo dei Narratori minori?
(appunti per una piega massonicocculto dell'articolo: narratore come profeta, profeta come narratore, profezia come frottolla e frottola come rivelazione. La consistenza onirica ed emotiva della Verità. Buttarla in caciara sul reale ruolo del narratore in termini epocali e apocalittici e, forti di tali argomenti, presentarsi a eventuale mecenate con sguardo invasato. Ottime possibilità di successo).
Che tipo di letteratura è Giona, allora? Un racconto di evasione? Midhrash (fictio didactica)?
Personalmente non riteniamo (uso il plurale per sottolineare la fede in quanto dico denunciando l'adesione ad esso da parte di tutte le mie personalità), non riteniamo che esista una letteratura di evasione. E neanche l'evasione. Perfino chi evade, poniamo da un carcere, ha più per fine un esercizio dell'intelletto e una visione dell'anima che l'evasione in sé. Inoltre trovo difficile che un ebreo sia mosso a parlare da altro scopo che non sia morale. Perfino se si mette a raccontare una barzelletta.
Per esempio (barzelletta ebrea contro gli ebrei):
Un padre dice al figlio, "Sali sulla scala e, quando te lo dico io, buttati di schiena."
" Ma io ho paura, papà", gli risponde il figlio.
"Abbi fede. Io ti prenderò"
Il figlio si butta ed il padre lo afferra. Il gioco va avanti un po'. Dal secondo piolo. Dal terzo piolo. Dal quarto. Il figlio sta lì, sale i pioli e si butta. Da tutto questo gioco impara che, a parte che il padre è un faceto, egli è anche un tipo affidabile. Arriviamo al nono piolo. Il ragazzo si butta. Il padre si scosta e non lo afferra. Il giovane è tutto rotto e comincia a piagnucolare.
" Ma perché non mi hai afferrato?" Urla al padre.
" Così impari a fidarti di un ebreo!" [2]
Forse non arriva subito, ma qui, l'ammaestramento antisemita è addirittura un tentativo di criptare un insegnamento metafisico e psichico che, tra l'altro, ha la sua fonte nel libro stesso di Giona.
Seconda considerazione, meno a latere, sui motivi che supportano e giustificano questo articolo. Il ruolo dei minori come fonte.
Il Minore è forse un generoso dissipatore. Trova la storia esatta. Quella che esattamente è da raccontare. La butta giù come gli viene in tre paginette (come nel caso del nostro) e poi lascia che siano altri a scriverla. il Minore è il grande soggettista. Giona è il soggettista di questa barzelletta. Di Moby Dick, della Commedia e dell'Odissea, di Pinocchio e, in generale, di tutta quella letteratura che si pone a metà strada tra la psichiatrica e la turistica.
Il turismo come viaggio, il viaggio come ricerca, la ricerca come tensione al ricongiungimento (Iside e Osiride). Un azione, in sé, al di là della sua soddisfazione, terapeutica. La terapia come atto cosciente di viaggio[3]. Il problema che entrambe le azioni mettono in ballo, in termini coincidenti di patologia e soluzione della patologia, è lo stesso: l'inquietudine.
Pier Paolo Di Mino

[1] Il punto esclamativo a fine asserzione è un fossile grafico dello stato di rapimento romantico in cui ho concepito questo pensiero.

[2] Traduco così dalla versione coretica del Beughilker (Basilea, 1765). C.Bubber, in "Portico D'Ottavia" (tr. di M. Bosè, Simiakòs ed., Roma), riporta la versione: "Ma li mejo mortacci tua e di chi non te ce manda"; "così te 'mpari"
[3] Ipotesi terapeutica: eliminare quella feroce distorsione prospettica che è l'analisi del profondo come scandaglio degli intestini nella psicoterapia, e ridefinire il viaggio come prassi immaginale cosciente. In pratica ridefinire il ruolo del terapeuta in tour operetor. Volendo le due parole si assomigliano. Lascio a qualche filologo il compito di dimostrarne la parentela.

JAMES HILLMAN, Saggio su Pan, Adelphi, p.132, euro 9,00


Adelphi ristampa il saggio su Pan di uno degli scrittori più comprati e meno letto dagli italiani, James Hillman, quest’uomo le cui parole sono così poco essenzialmente comprese, quindi belle, che nessun uomo di gusto, foss’anche un modesto gusto borghese, lascerebbe mancare al migliore ornamento della propria libreria.
E vale veramente tutto il piacere di parlarne.
Il saggio è un canto al Pan, il dio che è tutto. Quel Dio, narra Plutarco, che hanno sentito morire mentre moriva sulla croce il dio dei cristiani, a significare una certa, se vuoi banale e scontata ma sempre esaltante, identità tra avversari.
Il dio, ci racconta l’Hillman, che starebbe a un certo nostro lato oscuro, di buon depravato e stupratore. Un lato che ci rende vivi in maniera elementare, e la cui elaborazione a metafora (il lavoro di penetrante poesia che si può adoperare su di esso) libera, letteralmente, il nostro corpo in letteratura.
Bene, il saggio è solo un capitolo di quel grande romanzo figurale che questo ultimo grande scrittore italiano, italiano sulla scorta terapeutica del Ficino, ancora vivo della viva curiosità del Pico della Mirandola, furente come Bruno e tutto parola come il D’annunzio (peccato non abbia potuto prendersi il lusso di scrivere in questa lingua morta); che questo grande scrittore ha composto usando le figure degli antichi, quindi immortali, dei.
E vale la pena di questo piacere, perché con Hillman parliamo di piacere; perché con Hillman, a metterla giù come Benjamin, impariamo spettacolarmente che i fini sono tutti sbagliati perché servono solo per scusa ai mezzi, che sono tutti sbagliati: quello che vale, e si salva, è il modo. Il modo: la letteratura di Hillman.
Grande lezione di letteratura; di letteratura pura ed essenziale, figurale, in cui viene magistralmente, con costanza, esemplificato il bene taumaturgico di due risorse retoriche di nettissima pregnanza poetica: la ripetizione e la ridondanza.
È così. La ripetizione che esaltava a sistema Kierkegaard; la ripetizione (repetita juvant) che è scuola del classico (fino alla vetta vertiginosa e amara, da sangue al naso, di un Lucrezio). È lo stesso Hillman, in qualche luogo, a denunciare di avere imparato a ripetersi da un vecchio zio che raccontava sempre la stessa storia, e allo stesso modo. Il giovane, ancora ignaro della propria vocazione alla letteratura, un giorno interruppe il parente per dirgli che questa storia l’aveva già raccontata, così da dare il destro al vecchio di pronunciare il sacro e santo: si vede che mi piace ripeterla. Il piacere è ripetizione. La letteratura è ripetizione. La letteratura è ripetizione, infine, perché la retorica di puro piacere della ripetizione corrode via via il senso, toglie pregnanza al concetto per collocare tale pregnanza nella sua elaborazione. Il concetto, così, si esalta nel significante.
E poi, e ancora di più, la ridondanza. La ridondanza perché poche e banali le cose che a questo mondo si possono raccontare e da tutte, a ben vedere e con rigore, si può desumere una sola conclusione: la conclusione che tutti attende.
Da questa banalità, da questo male variamente e con varia noiosità declinato dalle parole della medicina, ci può salvare solo quel complesso e tortuoso girare attorno a parole e parole, quella ridondanza, che è la letteratura.
E qui finisco questa breve recensione, con la coscienza tranquillissima di avere detto poco su quel poco che Hillman ha detto su Pan.
Pier Paolo Di Mino

10 febbraio 2009

ARMIN GREDER, La città (trad. di Alessandro Baricco), pp. 36, euro 16,00, Orecchio Acerbo

Per il racconto illustrato che stiamo qui presentando, caratterizzato da una fortissima componente animica, si è reso necessario un dialogo platonico in piena regola (Veronica Leffe = LEF; Silvia Santirosi = SAN).

Una Madre si allontana con il suo Bambino ancora in fasce dalla Città e dalla Guerra che l’ha resa vedova, vivendo per anni in un isolamento pressoché assoluto. Un giorno la Madre muore e il Bambino, ormai Ragazzo, dopo un momento di totale smarrimento e inattività, decide di lasciare la sua casa alla volta della Città. Ma deve prima seppellire le ossa della genitrice…

SAN Hai visto? Più il figlio viene stretto a sé dalla Madre, più i suoi occhi sono sbarrati. Una presenza tanto assoluta da farsi quasi assenza, e Armin Greder ce la racconta con un suo ritmo particolarissimo, proponendo una scansione tetralogica dei momenti di cura del bambino nelle varie fasi della sua infanzia e adolescenza, del viaggio con le ossa della Madre morta in spalla, della grande battaglia con il Lupo…

LEF In effetti potrebbe trattarsi di una semplice scelta estetica - già ne L’Isola (Orecchio Acerbo, 2008) l’autore aveva usato questo ritmo nelle sequenze - del resto, però, il quattro, fin dalla preistoria, fu usato simbolicamente per indicare il solido, il tangibile, il terrestre, il materiale. Che proprio questo ritmo sia stato scelto per scandire le fasi del racconto mi pare significativo, perché sembra perfettamente corrispondere soprattutto alla natura di questa mater-materia, che condiziona il protagonista per tutta la sua crescita, e anche quando è morta, e persino durante il confronto col Lupo: l’Uomo, schiacciato dal peso di un’eredità ingombrante e pervasiva (se ne libererà solo dopo la sepoltura), “combatte” con gli strumenti da lei imposti: la stessa scansione infatti ritma anche la battaglia finale...

SAN …una battaglia epica, contro un nemico possente. La tavola che lo presenta, una doppia pagina nera completamente abitata dal Mostro – umano quasi troppo umano – e dalla sua zampa minacciosa, pronta a colpire. Eppure il Lupo non c’è. Il nemico non è qualcosa che vive nel mondo reale. E’ una notte dell’anima che lo sorprende.

LEF Un nemico possente ma irreale dici… Si, è vero certo, ma è irreale dal punto di vista di una realtà letterale, che dà credito e valore solo a ciò che si può toccare, spiegare: questa è la realtà della materia (la Madre), materialismo razionalistico.

SAN Senza dubbio. Per farsi uomo il ragazzo deve emanciparsi da questa Madre che non lascia spazio, che vuole proteggere a tutti i costi (“Povero bambino, cosa sarà di te, ora che non ci sono più io al tuo fianco?”). Combattendo, si assume la responsabilità della propria vita. E la possibilità stessa di viverla.

LEF Si, infatti il racconto di Greder parla di una iniziazione. Ogni iniziazione ha il suo lato cruento e orrorifico. Non la si può intraprendere se ci si rifiuta di affrontare quello che ci fa paura; se ci si lascia soffocare da un eccesso di difesa. Il Lupo (il guardiano) difende questo passaggio iniziatico e sua funzione essenziale è di mettere alla prova l’iniziato.

SAN Come a dire che bisogna confrontarsi con il buio per crescere.

LEF Il buio, il profondo, il mondo infero…l’anima stessa ci chiama verso l’abisso a compiere una discesa (nekya), necessaria anche se dolorosa, necessaria come la morte della Madre in cambio della vita del Ragazzo.

SAN Non è un caso che la storia ”vera”, la sua storia, comincia proprio quando il libro finisce. La Città è l’orizzonte di possibilità del Ragazzo, la terra promessa, da cercare, da conquistare. Una Città che non vediamo mai, se non nella copertina e in pochi altri cenni linguistici e visivi più o meno diretti. Una Città “grande dove il cielo era sempre grigio e l’inverno, a volte, dura tre anni”. Una Città anche inquietante, quindi, abitata da uomini festanti, ma che indossano delle maschere. Sono dei simulatori. Ricordano i protagonisti dei quadri di Ensor…

LEF …è vero! E inoltre, le poche immagini della Città contraddicono, col loro colore, unica nota in un libro pressoché monocromo, contraddicono la descrizione che l’autore stesso ne dà all’inizio (quella che tu hai appena citato). E’ una Città di saltimbanchi, circo, carnevale, ballo in maschera e si mostra nella sua veste di elemento sovversivo, rappresenta il rovesciamento dell’ordine materiale e razionalistico, è un’anima pulsante di vita, materia immaginifica in cui ci si può perdere, ma la maschera è qualcosa che stimola l’indagine, offre la fatica della scoperta. Insomma, Greder con questo lavoro dimostra una grande capacità di confrontarsi con l’archetipo…

SAN …riuscendo a plasmare, a trasfigurare la sua stessa vicenda autobiografica (in una risata confessa l’unica differenza tra la Madre del libro e la sua genitrice: quest’ultima è ancora viva!) in una storia in cui tutti possono riconoscere l’universalità di un meccanismo. Dopotutto, «conoscere le nostre paure è il miglior metodo per occuparsi delle paure degli altri». Jung docet.

LEF Il metodo di lavoro dell’artista consiste nell’abbassare il livello di “ascolto” fino a raggiungere una presa diretta con l’anima, con l’immaginale, per ripescare un materiale scottante che non sempre risulta subito chiaro neppure all’autore e - invidiabile, prezioso risultato – è il dato di raro equilibrio che si stabilisce tra testo e immagine, dove l’uno non può fare a meno dell’altra per una reale e completa comprensione del racconto…

SAN Non si nota nessuna ridondanza, nessuna sovrapposizione, nessun facile e ammiccante estetismo. Armin Greder consegna al lettore le chiavi d’accesso a un mistero, ossequioso – forse – del fatto che «la porta dell’invisibile deve essere visibile». Una visione fatta di parole e immagini che, alla fine, parlano la stessa lingua.

Biografia: Armin Greder, nato il 24 maggio 1942 in Svizzera, è architetto, fumettista, Graphic designer e illustratore. Emigrato in Australia nel 1971, insegna design e illustrazione al Queennsland College of Art. Al suo lavoro sono state dedicate numerose mostre personali e collettive dalla Germania fino al Giappone. Nel 1996 ha ricevuto il Bologna Ragazzi Award con The Great Bear, e l’IBBY Honour List. L’isola, edito da Orecchio Acerbo nel 2008, è il suo primo libro come autore narrativo, e ha ricevuto moltissimi premi in tutto il mondo.
Silvia Santirosi – Veronica Leffe

3 febbraio 2009

Shaun Tan, L’approdo, elliot edizioni, pp. 126, euro 22,00

Spesso siamo convinti di azioni e intenzioni che inevitabilmente vengono smentite dal risultato finale del nostro operato. Uno scrittore come Vittorini sentì il bisogno di precisare nella nota in calce al suo Uomini e no, alcune riflessioni, quasi una giustificazione, del suo lavoro: “In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali; tutto è legato al mondo psicologico dell’uomo e nulla vi si può affermare di nuovo che non sia pura e semplice scoperta umana. La mia appartenenza al Partito Comunista indica quello che voglio essere, mentre il mio libro può indicare soltanto quello che in effetti io sono”. Estrema, dolorosa consapevole ammissione di un uomo mosso da un profondo impegno etico e morale che, invece, è solo un artista! Vittorini vuole cambiare il mondo reale, ma, suo malgrado (e per fortuna), scivola e inesorabilmente discende, al mondo infero, al mito, lasciando alla letteratura italiana del dopoguerra, nonostante gli intenti realisti, l’unico vero romanzo italiano surrealista.

Ne L’approdo, racconto senza parole (forse quindi grafic novel per eccellenza), Shaun Tan come Vittorini, parte certamente da un intento e da un impegno etico e morale, vorrebbe affrontare una faccenda delicata e di scottante attualità come il tema dell’immigrazione (mettendosi così apparentemente sulla stessa scia di autori impegnati, quali Art Spiegelman, o Joe Sacco, maestri del reportage illustrato). Nella nota al testo si preoccupa di fornire dati e spiegazioni sul tema del suo racconto e sul metodo del suo lavoro: diligentemente snocciola una serie di riferimenti, nomina tutti i materiali iconografici, che vanno dalle foto storiche, ai quadri, ai film famosi; cita testi di storia, i racconti orali, la storia personale, della sua stessa famiglia (che dalla Malesia emigrò in Australia), tutto questo quasi fosse uno studioso, un ricercatore scientifico o un giornalista più che un artista!, come a voler rafforzare il valore positivo del suo operato, a voler dire che questo affonda le radici in una precisa, concreta, realtà.

Ma poi, cosa racconta, cosa è veramente questa storia muta?In effetti, il racconto di Shaun Tan, sta al tema sociale dell’immigrazione come i fatti accaduti nel mondo diurno stanno al sogno o mondo infero (come lo definisce Hillman). Del sogno infatti ha la struttura e l’andamento questo libro. Sfogliando le sue pagine, nonostante la minuziosa nettezza fotografica dei disegni, nonostante l’insistenza cinematografica di alcune sequenze, come se l’autore fosse rimasto impigliato nell’esercizio automatico (da regista), di uno story board, si respira la stessa aria densa e pesante di un sogno, un’aria che ribolle e fermenta, che si fa epifania e poi sfugge. Il fluire ininterrotto delle immagini a volte si fa serrato, a volte rallenta e si gonfia dilatandosi senza preoccupazione alcuna (evviva!), di una qualsiasi coerenza narrativa: racconto per eccellenza anticinematografico . Shaun Tan usa le tecniche che conosce (quella del fare cinema), e i materiali acquisiti nella ricerca (quelli elencati nella nota suddetta) e, con procedimenti da alchimista li trasforma in pura sostanza animica, conduce il lettore silenziosamente in un drammatico percorso, vero viaggio iniziatico. Linguaggio forte, intenso, pregnante, essenziale: l’evidenza assoluta dell’immagine trascende la cronaca, il dato storico, l’aneddoto sentimentale, va oltre l’intrattenimento per farsi immagine onirica, psichica, mitica, divina. L’artista come vaso per un’immagine, che, alchemica, misteriosa, enigmatica, si rivela ricca di anima, viva e reale e autonoma, come quella dei sogni.

Veronica Leffe