3 febbraio 2009

Shaun Tan, L’approdo, elliot edizioni, pp. 126, euro 22,00

Spesso siamo convinti di azioni e intenzioni che inevitabilmente vengono smentite dal risultato finale del nostro operato. Uno scrittore come Vittorini sentì il bisogno di precisare nella nota in calce al suo Uomini e no, alcune riflessioni, quasi una giustificazione, del suo lavoro: “In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali; tutto è legato al mondo psicologico dell’uomo e nulla vi si può affermare di nuovo che non sia pura e semplice scoperta umana. La mia appartenenza al Partito Comunista indica quello che voglio essere, mentre il mio libro può indicare soltanto quello che in effetti io sono”. Estrema, dolorosa consapevole ammissione di un uomo mosso da un profondo impegno etico e morale che, invece, è solo un artista! Vittorini vuole cambiare il mondo reale, ma, suo malgrado (e per fortuna), scivola e inesorabilmente discende, al mondo infero, al mito, lasciando alla letteratura italiana del dopoguerra, nonostante gli intenti realisti, l’unico vero romanzo italiano surrealista.

Ne L’approdo, racconto senza parole (forse quindi grafic novel per eccellenza), Shaun Tan come Vittorini, parte certamente da un intento e da un impegno etico e morale, vorrebbe affrontare una faccenda delicata e di scottante attualità come il tema dell’immigrazione (mettendosi così apparentemente sulla stessa scia di autori impegnati, quali Art Spiegelman, o Joe Sacco, maestri del reportage illustrato). Nella nota al testo si preoccupa di fornire dati e spiegazioni sul tema del suo racconto e sul metodo del suo lavoro: diligentemente snocciola una serie di riferimenti, nomina tutti i materiali iconografici, che vanno dalle foto storiche, ai quadri, ai film famosi; cita testi di storia, i racconti orali, la storia personale, della sua stessa famiglia (che dalla Malesia emigrò in Australia), tutto questo quasi fosse uno studioso, un ricercatore scientifico o un giornalista più che un artista!, come a voler rafforzare il valore positivo del suo operato, a voler dire che questo affonda le radici in una precisa, concreta, realtà.

Ma poi, cosa racconta, cosa è veramente questa storia muta?In effetti, il racconto di Shaun Tan, sta al tema sociale dell’immigrazione come i fatti accaduti nel mondo diurno stanno al sogno o mondo infero (come lo definisce Hillman). Del sogno infatti ha la struttura e l’andamento questo libro. Sfogliando le sue pagine, nonostante la minuziosa nettezza fotografica dei disegni, nonostante l’insistenza cinematografica di alcune sequenze, come se l’autore fosse rimasto impigliato nell’esercizio automatico (da regista), di uno story board, si respira la stessa aria densa e pesante di un sogno, un’aria che ribolle e fermenta, che si fa epifania e poi sfugge. Il fluire ininterrotto delle immagini a volte si fa serrato, a volte rallenta e si gonfia dilatandosi senza preoccupazione alcuna (evviva!), di una qualsiasi coerenza narrativa: racconto per eccellenza anticinematografico . Shaun Tan usa le tecniche che conosce (quella del fare cinema), e i materiali acquisiti nella ricerca (quelli elencati nella nota suddetta) e, con procedimenti da alchimista li trasforma in pura sostanza animica, conduce il lettore silenziosamente in un drammatico percorso, vero viaggio iniziatico. Linguaggio forte, intenso, pregnante, essenziale: l’evidenza assoluta dell’immagine trascende la cronaca, il dato storico, l’aneddoto sentimentale, va oltre l’intrattenimento per farsi immagine onirica, psichica, mitica, divina. L’artista come vaso per un’immagine, che, alchemica, misteriosa, enigmatica, si rivela ricca di anima, viva e reale e autonoma, come quella dei sogni.

Veronica Leffe