15 febbraio 2009

JAMES HILLMAN, Saggio su Pan, Adelphi, p.132, euro 9,00


Adelphi ristampa il saggio su Pan di uno degli scrittori più comprati e meno letto dagli italiani, James Hillman, quest’uomo le cui parole sono così poco essenzialmente comprese, quindi belle, che nessun uomo di gusto, foss’anche un modesto gusto borghese, lascerebbe mancare al migliore ornamento della propria libreria.
E vale veramente tutto il piacere di parlarne.
Il saggio è un canto al Pan, il dio che è tutto. Quel Dio, narra Plutarco, che hanno sentito morire mentre moriva sulla croce il dio dei cristiani, a significare una certa, se vuoi banale e scontata ma sempre esaltante, identità tra avversari.
Il dio, ci racconta l’Hillman, che starebbe a un certo nostro lato oscuro, di buon depravato e stupratore. Un lato che ci rende vivi in maniera elementare, e la cui elaborazione a metafora (il lavoro di penetrante poesia che si può adoperare su di esso) libera, letteralmente, il nostro corpo in letteratura.
Bene, il saggio è solo un capitolo di quel grande romanzo figurale che questo ultimo grande scrittore italiano, italiano sulla scorta terapeutica del Ficino, ancora vivo della viva curiosità del Pico della Mirandola, furente come Bruno e tutto parola come il D’annunzio (peccato non abbia potuto prendersi il lusso di scrivere in questa lingua morta); che questo grande scrittore ha composto usando le figure degli antichi, quindi immortali, dei.
E vale la pena di questo piacere, perché con Hillman parliamo di piacere; perché con Hillman, a metterla giù come Benjamin, impariamo spettacolarmente che i fini sono tutti sbagliati perché servono solo per scusa ai mezzi, che sono tutti sbagliati: quello che vale, e si salva, è il modo. Il modo: la letteratura di Hillman.
Grande lezione di letteratura; di letteratura pura ed essenziale, figurale, in cui viene magistralmente, con costanza, esemplificato il bene taumaturgico di due risorse retoriche di nettissima pregnanza poetica: la ripetizione e la ridondanza.
È così. La ripetizione che esaltava a sistema Kierkegaard; la ripetizione (repetita juvant) che è scuola del classico (fino alla vetta vertiginosa e amara, da sangue al naso, di un Lucrezio). È lo stesso Hillman, in qualche luogo, a denunciare di avere imparato a ripetersi da un vecchio zio che raccontava sempre la stessa storia, e allo stesso modo. Il giovane, ancora ignaro della propria vocazione alla letteratura, un giorno interruppe il parente per dirgli che questa storia l’aveva già raccontata, così da dare il destro al vecchio di pronunciare il sacro e santo: si vede che mi piace ripeterla. Il piacere è ripetizione. La letteratura è ripetizione. La letteratura è ripetizione, infine, perché la retorica di puro piacere della ripetizione corrode via via il senso, toglie pregnanza al concetto per collocare tale pregnanza nella sua elaborazione. Il concetto, così, si esalta nel significante.
E poi, e ancora di più, la ridondanza. La ridondanza perché poche e banali le cose che a questo mondo si possono raccontare e da tutte, a ben vedere e con rigore, si può desumere una sola conclusione: la conclusione che tutti attende.
Da questa banalità, da questo male variamente e con varia noiosità declinato dalle parole della medicina, ci può salvare solo quel complesso e tortuoso girare attorno a parole e parole, quella ridondanza, che è la letteratura.
E qui finisco questa breve recensione, con la coscienza tranquillissima di avere detto poco su quel poco che Hillman ha detto su Pan.
Pier Paolo Di Mino